Goliardo Padova
(Casalmaggiore 1909 – Parma 1979)
Veduta di Parma
1961, tempera su carta
Goliardo Padova era lombardo di origine, ma parmigiano per scelta. Nacque a Casalmaggiore, in terra lombarda, ma poco distante dal confine emiliano e lì, vicino al Grande Fiume, trascorse la maggior parte della sua esistenza. «Goliardo Padova – come scrisse Tiziana Cordani – amava il fiume essendo nato e cresciuto a Casalmaggiore, sulla sponda cremonese, sul Fiume ci andava a giocare da piccolo, a passeggiare da grande, poi a dipingere, quando la scelta di vita si era compiuta e, accanto all’azienda agricola di famiglia, s’era configurata quest’altra attività della pittura. Al Po tornava da Milano, al Po tornò anche dalla guerra: le radici e gli ancoraggi affettivi erano lì, ben saldi nell’ansa del Fiume. Poi da lì, dal Po, decise di andarsene, andò a vivere a Parma, con la famiglia, in una terra che il Po non lo può vedere, che guarda alle colline, e dietro a loro alle montagne».
Nel 1961, l’uomo del fiume, a quel tempo pittore ritrovato, abbandonò coscientemente la campagna, quella terra bagnata dalle acque del Po, alla quale nonostante questa scelta rimase profondamente legato, per la città. Scelse Parma, quella città oltre il Po che da sempre aveva esercitato grande attrattiva su di lui, soprattutto dal punto di vista culturale. L’anno precedente, proprio a Parma, presso la Galleria La Ruota, Padova aveva avuto l’opportunità di allestire una mostra personale, la più completa fino a quel momento, scelta accolta con soddisfazione dal poeta e amico parmigiano Attilio Bertolucci: «Ed è molto bello che Parma, città non grande, ma di grande tradizione pittorica, dia la mostra sino ad oggi più completa e persuasiva di questo confinante, forse attratto più dalle sue luci lontane, anche più lontane per la barriera d’acqua che sta in mezzo, che da quelle della pur cara a lui e necessaria patria lombarda. Si direbbe che il nitore della piccola capitale di un tempo che oggi l’accoglie, la sua vocazione illuministica, gli debba servire a non impantanarsi in una padanità la cui fanga, del resto, è essenziale alla sua arte».
Padova trae rinnovata linfa creativa da quella nuova e così affascinante realtà cittadina che ispirerà suggestive vedute. Tra queste, vi è la veduta di Parma, dipinta a tempera su carta, che oggi vi proponiamo e che è entrata a far parte delle Collezioni di Fondazione Cariparma nel 2005 in seguito alla donazione di Fiammetta, figlia del maestro.
Dopo un silenzio ‘artistico’ durato dieci lunghi anni, nel 1955 Padova aveva ripreso a dipingere intensamente, con costanza e dedizione, impiegando nelle prime prove solo colori a tempera.
L’opera reca non solo la firma dell’autore, apposta nell’angolo destro in basso ma anche, appena sotto, la data precisa di realizzazione “maggio 61”.
Il colpo d’occhio sulla città è lanciato dall’alto, quasi una ripresa grandangolare, sui tetti squadrati e sulle ridotte porzioni di edifici che si intravedono da quel punto di osservazione, delimitati da marcate linee nere di contorno; sembra di stare davanti ad un immenso tappetto di poligoni rossi-arancioni e gialli.
A sinistra, emerge dalla scacchiera irregolare degli edifici un possente campanile che, nella forma della guglia, nell’accenno alla banderuola e alla croce sulla punta, ottenuti con veloci segni neri, ricorda quello seicentesco della Chiesa di San Giovanni Evangelista, attribuito all’architetto Giovanni Battista Magnani, che peraltro, con i suoi 76 metri, è il più alto della città.
La famiglia Padova, come affiora dai ricordi della figlia Fiammetta, viveva in Viale Tanara, ad un piano alto di un grande palazzo, una postazione privilegiata per l’artista, dalla quale poteva ammirare chiese e palazzi del centro storico. Per giunta, per godere a pieno di questi suggestivi scenari, desiderava che le finestre di casa rimanessero prive di tende.
Sempre nel 1961 dipinge due vedute molto simili, per composizione e segno, a quella conservata a Palazzo Bossi Bocchi: la prima è stata dipinta con tempera e china su cartone e riporta titolo, firma e data, mentre la seconda, sempre realizzata con tempera e china su carta, è intitolata e firmata, ma senza data. Padova osservava con attenzione i monumenti simbolo della città, eterni custodi di storia e tradizioni, che, con la forza delle loro maestose architetture, si imponevano nel panorama urbano; da questa intensa riflessione è scaturita, nel corso degli anni, una ricca sequenza dipinta di mura, facciate, torri, campanili, cupole…
Padova era solito scegliere un tema e interpretarlo più volte, lo fece anche con le vedute cittadine, nelle quali i profili del Duomo, del Battistero, della Chiesa di San Giovanni Evangelista, della Chiesa di Santa Maria della Steccata e del Teatro Regio svettavano nella piana di case contigue.
Tornando all’opera in oggetto, sullo sfondo, dietro alle costruzioni più lontane, si intravedono le sagome grigie delle montagne che determinano una netta separazione tra la dimensione terrena e umana e quella celeste. Il cielo prende spazio e occupa buona parte della superficie cartacea: è cinereo, di una tonalità più scura in alcune parti, realizzato con pennellate leggere, lunghe e diluite, stesso tocco impiegato per dipingere i tetti.
Il silenzio intorno e la giusta quiete erano per Padova la condizione ideale per lavorare, elaborare i suoi temi e riscriverli attraverso il filtro della mente, spaziando dall’uso della matita, a quello degli acquerelli, delle tempere e degli olii. Per questo motivo individuò il suo rifugio creativo fuori dalle mura domestiche, in Borgo del Naviglio: l’ambiente non era ampio e piuttosto buio, con quadri posti sui cavalletti e a terra, ma c’era una piccola finestrella dalla quale entrava luce e si poteva scorgere il muro di San Francesco, che ispirò un suo famoso dipinto. Inoltre, passando davanti alla piazzetta del borgo, capitava spesso che il suo sguardo incrociasse quello di alcune donne lì riunite per qualche veloce chiacchiera in libertà, che, abbandonato il palcoscenico della strada e rientrate nelle rispettive dimore, diventavano poco dopo le eterne protagoniste dei racconti su carta del pittore.
Quello di Padova è un continuo pensare e ripensare, un riversare di esperienze in pittura. Anche le vedute di Parma rappresentano un aspetto importante del vissuto e della riflessione sull’arte del maestro. «Ogni quadro – come ricordò Lucia Fornari Schianchi nel catalogo della mostra dedicata a Goliardo Padova, dal Comune di Langhirano nel 2007 – è un rito forte, è un uscire da sé, è un gesto immediato ma già presente e a lungo trattenuto e maturato, che si libera all’ora giusta di un giorno, di un anno. È lunga preparazione, è studio, è riflessione che sgorgano fin dal primo gesto quando il pennello si immerge nel colore e il primo segno si deposita sul supporto».
Scheda realizzata in collaborazione con Artificio Società Cooperativa