Erminio Fanti
(Parma, 1821 – 1888)

Calesse con musicisti in piazza di paese (Chiesa di Santa Croce a Parma)
1888, olio su tavola

Questo dipinto, realizzato su tavola, è opera del paesaggista parmigiano Erminio Fanti e ci permette ancora una volta di approfondire gli avvicendamenti architettonici dei monumenti della nostra città. Non solo, a differenza delle vedute cittadine finora presentate negli altri appuntamenti di #Respiri d’Arte#, questo quadro si presenta con una differenza fondamentale: l’architettura infatti fa da ‘sfondo’ alla ‘scena’ rappresentata, non è più il soggetto del dipinto. Alla pittura prettamente di paesaggio si somma la “pittura di genere”, molto in voga nel XIX secolo. Questo tipo di rappresentazioni ci permette oggi di conoscere gli usi e i costumi dei nostri antenati.
Immaginiamo un palcoscenico, gli attori sono i personaggi del dipinto che si muovono all’interno della scenografia costituita dalle architetture. Le figure dipinte da Fanti, non sono più le ‘macchiette’ o le comparse disposte per completare la composizione, ma diventano le vere protagoniste della veduta.
La quinta scenografica è una ricostruzione parzialmente fantastica del piazzale antistante la chiesa di Santa Croce a Parma, cui fa da contraltare una folla gremita che accerchia alcuni suonatori.
Formatosi all’Accademia parmense di Belle Arti, fu allievo del paesaggista e scenografo Giuseppe Boccaccio. Uno dei primi dipinti di cui si ha notizia è la Veduta di Bargone del 1844, commissionatagli dalla duchessa Maria Luigia d’Austria, cui fecero seguito altri Studi di paesaggio dipinti per la medesima sovrana che incentivò annualmente il genere, richiedendo agli allievi più meritevoli scorci inusuali del Ducato. Nel 1847 concorse, vincendolo, al premio annuale di paesaggio per il pensionato romano istituito in favore degli artisti parmensi. Dal 1847 al 1849 il Fanti fu così a Roma, con l’obbligo di inviare un saggio annuale del pensionato. Considerato dalla critica un discreto paesaggista fu comunque maestro di una schiera di pittori parmensi. Alla morte del Boccaccio mantenne infatti l’incarico di professore aggiunto della sezione di pittura.
Ereditò dal Boccaccio il gusto per le inquadrature scenografiche, arricchendole di raffinatezze cromatiche. Nel dipinto infatti possiamo leggere un interessante gioco di luci e contrappunti cromatici che dividono la scena: la folla in primo piano rimane in penombra creando un forte contrasto con la verticalità data dalle architetture retrostanti pienamente illuminate.
La facciata rappresentata corrisponde a quella della chiesa di Santa Croce così come doveva apparire ai viaggiatori che fossero arrivati a Parma prima dei restauri subiti all’inizio del Novecento. La presenza del muraglione addossato sul lato sinistro e di altri caseggiati incongrui rende l’opera un capriccio che l’artista ricompone in maniera libera e fantasiosa, secondo una tradizione artistica consolidata, che associava elementi architettonici reali ma in parte decontestualizzati.

Fin dall’antichità, la chiesa di Santa Croce accoglieva i pellegrini in cammino verso Roma che arrivavano dal nord seguendo la via Emila: una deviazione cittadina al tracciato principale della via Francigena che, dopo il tratto in pianura, arrancava verso Monte Bardone.
Questa chiesa cosiddetta di via, in origine extra moenia ‘al di fuori della cinta muraria’, rappresentava quindi il primo contatto con la città di Parma.
La lastra marmorea utilizzata fino al 1940 come mensa d’altare è la prima documentazione sulla chiesa; riporta infatti la data della presunta consacrazione dell’edificio alla presenza del vescovo Grazia: 21 agosto 1222.
In quell’occasione venne posta sopra l’altare maggiore la reliquia che da il nome alla chiesa, il Sacro Legno, un frammento della croce che nell’iconografia medievale simboleggiava il legnum vitae, il legno della vita.
Ad indicare ai pellegrini la via da seguire erano le raffigurazioni scolpite sugli arcaici capitelli, ancora visibili all’interno. le immagini riprese dal bestiario medievale e dalla mitologia pagana svolgevano infatti una funzione didattica: raccontavano, insegnavano, ammonivano. Lungo il loro viaggio i pellegrini avevano l’occasione di sfogliare e leggere straordinari libri di pietra. Sul portale, oggi riposizionato, doveva comparire un fregio con una scena, ormai corrosa dal tempo: un giovane seguito da mostri fantastici, emblema dell’anima umana, sempre rincorsa dalle tentazioni. Ma altri pericoli incombono all’interno: scolpiti su dodici capitelli troviamo maschere, volti ghignanti, serpenti, sirene a due code come spaventose evocazione dei nostri peccati e allusione ai pericoli ai quali era esposta l’anima del cristiano.
Nel Cinquecento la chiesa venne affida alla confraternita laicale di San Giuseppe che perseguiva scopi assistenziali e caritatevoli.
La chiesa assunse l’aspetto attuale dopo il 1633, quando, dopo il crollo della volta soprastante l’altare, venne ridimensionata; la facciata fu arretrata, furono rialzate le navate e ricostruito il presbiterio, modificando irrimediabilmente la spazialità interna dell’edificio romanico a favore di una forma barocca.

Ancora oggi, il visitatore attento riesce a leggere, fra le navate, alcune tracce delle vicende architettoniche.
All’epoca del dipinto la chiesa appariva ancora come un edificio barocco, ma da lì a poco avrebbe subito altri importanti interventi di restauro ad opera dell’architetto Collamarini.
Tra il 1904 e il 1909, infatti, con l’intenzione di riportare l’edificio all’aspetto medievale originale, furono messi a nudo i mattoni in cotto e rimaneggiati pesantemente la facciata, la torre e il fianco nord.
Dopo la prima tappa in chiesa i viandanti si incamminavano per Strada Santa Croce, ora strada D’Azeglio. Se tanti erano in viaggio per espiare i peccati, altri, soprattutto nel Settecento, possono essere paragonati ai turisti moderni, curiosi del mondo. Altri erano mercanti o semplici affaristi. Altri ancora erano poveri, ammalati, bisognosi di cure.
L’importanza di questa chiesa qualifica ancora meglio la funzione dell’insediamento che, posto all’ingresso occidentale della città, ambiva ad essere uno dei luoghi di ricovero dei passanti diretti a Roma.
Strada Santa Croce rappresentava per Parma il cuore pulsante dell’assistenza; l’antico e sovraffollato quartiere popolare di Capo di Ponte (Oltretorrente) era una delle zone urbane in cui tradizionalmente si concentravano gli spazi d’accoglienza e di cura. Non a caso il primo ospedale di Parma è nato qui.
Al centro della scena compare un gruppo di musicisti, suonatori ambulanti o più probabilmente parte di una più numerosa banda di orchestrali, come si evince dalla strumentazione e dall’abbigliamento di foggia militaresca, giunti in città con una ricca carrozza in occasione di una festa.

Il mestiere di bandista non era facile, soprattutto se non si apparteneva ad un complesso bandistico militare o civico. Ci si doveva svegliare all’alba perché il giro del paese con la banda iniziava molto presto per poter arrivare fino all’ultima casa della periferia cittadina. I bambini correvano dietro la banda e guardavano con ammirazione, ora il trombone, ora il fagotto, ora la trombetta.

Arrivava il momento per una pausa, ma durava pochi secondi. Questo lavoro non era ben retribuito e la misera paga incoraggiava, forse, soltanto i più giovani.
Le Bande musicali, fin dalla loro nascita nel periodo borbonico, hanno rappresentato un momento di riscatto ed emancipazione dei ceti più poveri ed emarginati. Scandivano i momenti più significativi nella vita sociale di ogni centro cittadino: dalle feste patronali, alle processioni, ai funerali…
La vettura viene erroneamente identificata come calesse, tuttavia presenta caratteristiche molto diverse da quest’ultimo. Si tratta infatti di una carrozza priva di portiere, a quattro ruote, a due posti con cassetta di guida per il cocchiere, coperta da un mantice in cuoio ripiegato.

Questa piccola carrozza venne creata in Inghilterra intorno al 1845, ed è una vettura a carattere estivo, di gran moda per tutta la seconda metà dell’Ottocento: fu chiamata Mylord ed in seguito copiata in più di uno stato, in particolare, a Parigi e Vienna. Alcune erano aperte con posti a sedere vis a vis per accogliere quattro viaggiatori, alcune avevano porte basse ai lati, tal’altre erano fatte per pariglie di pony e cavalli, molte, come la nostra, sono state costruite per essere trainate da un singolo cavallo.
Indipendentemente dal loro uso, le Mylord erano generalmente scure con interni foderati, in tessuti o pelli in capitonné.

L’abbigliamento tipico del groom, il palafreniere (custode del cavallo da viaggio o da parata), era caratterizzato da cilindro nero, livrea nera o scura, camicia con colletto bianco rigido, plastron con spilla, pantaloni da equitazione color panna, stivali in cuoio nero con risvolto marrone, guanti in pelle marrone.

Il guidatore (o cocchiere) che qui, per l’occasione, si fa direttore d’orchestra, indossava abiti di foggia classica: marsina di colore scuro, camicia chiara e cravatta sobria, un cilindro come copricapo, guanti in pelle di color marrone naturali, scarpe con stringhe intonate all’abito, calze scure.

La moda ottocentesca è l’espressione del ceto borghese. Soprattutto l’abbigliamento maschile registrò un significativo e radicale mutamento, quasi una svolta epocale. Un look austero e rigoroso, con tagli semplificati e decorazioni ridotte al minimo, sostituì il frivolo abbigliamento barocco; in tal modo si volevano esprimere la serietà del mondo del lavoro, in contrapposizione all’ozio dell’oziosa aristocrazia, la praticità, la prudenza, il risparmio, l’ordine.
Il personaggio vestito di scuro in basso a sinistra si distingue per la sua eleganza e per la preziosità dei tessuti in netto contrasto con i logori stracci indossati dal pubblico che lo affianca. La sua presenza appare fuori luogo, lontano dalla categoria della gente del popolo, ma a sua volta distante dall’atteggiamento tipico del borghese appena descritto. La foggia dei suoi abiti appare un tanto desueta, forse ancorata a dettami di derivazione settecentesca: giacca dalla vita sciancrata decorata con bottoni in ottone o peltro; le brache (Breeches), cioè i pantaloni corti al ginocchio tipici dell’abbigliamento maschile nel Settecento e che stavano gradualmente scomparendo; eleganti stivaletti alla caviglia.

Il cappello era un accessorio con cui un gentiluomo poteva distinguersi. Se era fatto interamente di castoro il cappello continuava a mantenere la forma anche sotto l’acqua, mentre cappelli di qualità inferiore in misto lana o in pelo di coniglio e castoro dopo essersi bagnati iniziavano ad ammosciarsi e dovevano essere portati dai cappellai per farli stirare e ridare loro la forma originale; è evidente che un capo del genere potevano permetterselo solo i ricchi.
Un accessorio reputato di grande eleganza era anche il ‘bastone’, detto anche ‘canna’. Generalmente di legno preziosissimo, il bastone aveva il pomello d’oro o d’argento cesellato, in cui si poteva tenere il necessario per fumare.
Fra il pubblico, composto perlopiù da poveri lavoratori del quartiere, compare una fra le figure più singolari e simboliche dell’Oltretorrente: al Cassoner. Era un mestiere tipicamente parmigiano, nel quale carrettiere e mezzo di trasporto si identificavano. Al cassoner si alzava presto, alle prime luci dell’alba, attaccava le stanghe del cassone, riempiva il sacco di fieno, vi buttava badile e piccone ed infine lasciava il cortile di casa per portarsi sul greto del Torrente Parma. Qui aveva a disposizione uno o due crivelli dal fondo forato attraverso i quali gettava palate di pietrisco per ricavarne diverse pezzature di ghiaia commissionategli dalle imprese edili locali per la costruzione di case, strade e i tipici acciottolati urbani. Vestiva dimessamente, ma era facilmente riconoscibile grazie ad un particolare costume; portava la camicia di tela ruvida, al collo legava un fazzolettone, teneva il panciotto anche se il sole faceva crepare la terra e non mancava di indossare la fascia di filo, spesso a colori vivaci, con la quale reggeva i pantaloni.

Scheda realizzata in collaborazione con Artificio Società Cooperativa