Bruno Zoni
(Coltaro di Sissa 1911 – Bannone di Traversetolo, Parma 1986)
Il Duomo
1949, olio su cartoncino
Il dipinto che oggi presentiamo è una veduta del Battistero e del campanile del Duomo che Bruno Zoni realizza nei primi anni del dopoguerra.
«Zoni è un uomo di profonda cultura, promossa da un contatto diretto e puntiglioso con i classici del passato e ravvivata da un’autonoma revisione critica sulle diverse tendenze dell’arte contemporanea. Ed è forse questa cultura, filtrata per maturazione interiore, che determina l’atteggiamento dell’artista dinanzi agli eventi che arroventano la scena ogni giorno mutevole della pittura in Italia […] La scelta cromatica […] è la chiave originaria che permette a Zoni di non indugiare […] sulle facili reminiscenze macchiaiole o sulle retoriche meditazioni novecentiste. Il pittore si pone sul terreno della ricerca, al di fuori delle sortite avventurose, ma sul percorso di quel colloquio personale con le cose e le figure del mondo che è il segno della sua personalità.»
In queste parole di Gianni Cavazzini ben si evince quanto Zoni risulti essere profondamente radicato ad una sua personale visione del mondo, tutta in divenire e che non può essere determinata esclusivamente dal gusto corrente.
L’opera che oggi presentiamo segna un momento di passaggio, una fase sofferta con ripensamenti e ritorni in cui la sua preoccupazione di non perdere in genuinità si affianca ad una altrettanto pressante tensione ad essere in sintonia col proprio tempo.
Fino al 1945 la sua pittura viene influenzata soprattutto dallo stile del Novecento italiano, ma qualcosa sta cambiando in Zoni che si mostra ormai pronto a recepire le nuove opportunità che il dopoguerra gli offre. C’è in lui voglia di sperimentare ma, al contempo, non vuole rinunciare alla propria personalità, alle proprie idee.
Una mostra, quello stesso anno, organizzata al Ridotto del Regio di Parma sarà decisiva per la carriera dell’artista: la sua opera è riconosciuta come «un punto felice in un giusto orientamento moderno». La critica, dunque, si accorge che la pittura di Zoni sta uscendo dall’inevitabile novecentismo dei suoi anni giovanili e come ha evidenziato Luciano Caramel «cambia la tavolozza, che si fa più limpida, priva di risonanze tonali».
Agli esordi degli anni ‘50 il mondo dell’arte si divide fra tendenze neocubiste o astratte e correnti realiste: Zoni, tuttavia, arriva ad un’originale e personale autonomia di visione.
L’emotività, intesa come fervente slancio vitale, con cui affronta tutti i soggetti – persone, paesaggi, nature morte – saprà liberarlo da qualunque preconcetto permettendogli di cogliere, come seppe intendere Pier Paolo Mendogni «in presa diretta aria, luce, sensazioni in una sciolta libertà pittorica fatta di segni brevi quanto intensi, lampi di sostanza poetica. […] La materia, brulicante di ombre, di luci, di spessori, rivela il proprio processo vitale di trasformazione mentre le vibrazioni emozionali si concentrano in segni di stenografica rapidità che accendono barlumi di liricità senza distogliere l’attenzione dalla sostanza concreta.»
In città, in un rinnovato clima culturale, si assiste ad un rifiorire di manifestazioni artistiche a cui Zoni partecipa con slancio, anche in virtù del suo ruolo istituzionale di Presidente del Sindacato Artisti.
Da allora l’attività espositiva si farà sempre più fitta e prenderà parte alle più importanti manifestazioni nazionali: la Biennale di Venezia, il Premio Suzzara, il Premio città di Gallarate, il Premio Golfo della Spezia, il Premio Michetti, senza contare le rassegne personali e la partecipazione a mostre collettive. Recensendo la mostra collettiva del 1949 sulla Gazzetta di Parma, Attilio Bertolucci annota: «di Bruno Zoni seguiamo i lavori non da oggi e ci sembra che egli vada lentamente, ma sicuramente conquistando un suo stile: apprezziamo di lui specie il colore, di grande raffinatezza e intensità.»
Sarà l’inizio di quella fama di grande colorista che rimarrà una delle costanti nel corso dell’intera sua vicenda artistica e il colore, chiamato al rapporto costante con i volumi, è l’elemento dominante nella nostra opera.
L’immagine si fraziona, si scompone, la materia emerge in modo diverso e inedito rispetto al passato. Zoni sente che esiste un nuovo modo per concepire lo spazio.
Chiede dunque a sé stesso di portare la ricerca verso una ben specifica direzione, ma con un occhio al passato, agli studi di scenografia all’Accademia di Brera, «dove aveva tante volte adottata la divisione, per piani staccati, del colore, usato le luci in modo violento facendole barbagliare da un lato, a filo dei volumi, dei profili, per meglio scandirli.»
Con questa veduta del campanile del Duomo e del Battistero di Parma, Zoni sembra voler sciogliere le forme per costruirle di nuovo tramite accostamenti e sciabolate violente di colori puri – giallo, azzurro cielo, marrone, biacca – tutti incorniciati di luce. I volumi degli edifici, seppur prospetticamente e scenograficamente impostati, si fanno poco a poco piani, evanescenti, quasi, li definisce A.C. Quintavalle, «raffinate, altissime vetrate dove i colori sono superfici, zone bianche-azzurre-verdi, dove gli echi delle case affastellate come blocchi di preziosissimi parii, alabastri, graniti si ritmano larghi, sempre più tesi, alla ricerca dello spazio oltre il quadro, essendo tutta esperita ormai ogni ulteriore ricerca di volume”.»
Attingendo ad una nuova dimensione interiore e affrontando l’esistenza con impulsività e inquietudine romantica ci mostra uno scorcio della città che, affiorando dai ricordi e passando, poi, per il vissuto soggettivo si carica di forti valenze emotive.
Non sono gli edifici, le figure umane, il Duomo stesso il vero interesse del pittore, ma la luce che annulla il volume smaterializzandone le forme e, con esse, il trascorrere del tempo: uno specchio di cielo azzurro, fermo e livido, che presuppone uno spazio infinito: pregno dell’ansia di una nuova dimensione, come dell’attesa di un evento.
La spezzatura delle pennellate prende un nuovo valore; sono infatti larghe strisce di colore che si frangono e si incrociano a breve tratto su una direttrice obliqua e costruiscono riquadri di bianchi, di gialli, di bruni, di azzurri, di rossi a determinare edifici e torri, ma sono soprattutto “lampi di luce proiettati in un rapidissimo tempo ascendente”.
L’opera è intitolata semplicemente Il Duomo, ma dell’imponente mole romanica distinguiamo nitidamente soltanto lo slanciato campanile che campeggia al centro del dipinto affiancato sulla sinistra dal Battistero.
Il punto di vista scelto da Zoni è piuttosto inusuale; nei secoli pittori, disegnatori, fotografi hanno privilegiato la piazza del Duomo, scegliendo, di volta in volta, di mettere in evidenza la sola facciata della cattedrale o preferendo dare una visione più ampia dei monumenti più rappresentativi.
Il nostro preferisce porsi in prossimità della chiesa di San Giovanni Evangelista, nell’omonimo piazzale, all’imbocco di via Cardinal Ferrari laddove è possibile abbracciare visivamente l’abside del Duomo, il retro del suo campanile, una fiancata del Battistero e gli edifici che, sulla sinistra compongono il Seminario Maggiore, eretto su progetto di Alessandro Ferrari d’Agrate nel XVI secolo sulle strutture dell’antica sede del Capitolo della Cattedrale di Parma.
La torre campanaria costruito in mattoni si accende di luce diventando il vero protagonista del dipinto.
Chiamata anche Torre Lunga, sorge alla destra della Cattedrale e domina il panorama grazie ad un’altezza di ben 63 metri. Eretta in stile gotico fra il 1284 e il 1294 per volontà del vescovo Obizzo Sanvitale, andò a sostituire la torre precedente a cui sarebbe dovuta seguire una struttura gemella alla sinistra della facciata, ma mai completata e definita in seguito Torre Mozza.
Al suo interno sono state collocate nel tempo sei campane: il famoso Baione (o Bajòn), l’Ugolina, la Vecchia, la Quinta e infine la più recente campana del Giubileo.
Il campanile è coronato da una balaustra in marmo decorata da guglie e da una cuspide piramidale a base ottagonale sulla cui sommità è collocato il famoso Angiol d’Or, una statua alta 1,42 metri in lastra di rame dorata, realizzato dal fonditore di campane Bernardino da Sacca nel 1293; danneggiato dall’inquinamento e dalle intemperie, è stato sostituito da una copia e l’originale si trova all’interno del Museo Diocesano.
Poche pennellate giallo ocra e brune rendono la struttura architettonica del Duomo decisamente sottodimensionata rispetto all’affusolato campanile. Non è possibile distinguere la preziosa raffinatezza delle decorazioni absidali, né l’alternarsi sulle pareti esterne di lunghe lesene e finestre ad ogiva corrispondenti alle cinque cappelle gotiche situate all’interno, ma solitaria si erge al centro la grande cupola sostenuta dal tiburio ottagonale e sormontata da una lanterna.
Il 4 settembre 1524 Marcantonio Zucchi fu incaricato di costruire esternamente un tiburio a protezione della cupola ed evitare così possibili danni da infiltrazione.
Una struttura squadrata, un grosso parallelepipedo marrone, in prossimità della zona absidale a sinistra, potrebbe essere rappresentativo della Sagrestia dei Consorziali, apparato architettonico aggiunto alla struttura preesistente nel XV secolo atto ad ospitare uno dei più interessanti arredi lignei del nostro territorio realizzate ad intarsio vedute prospettiche cittadine realizzato da Cristoforo da Lendinara e terminato da Luchino Bianchino.
Inondato di luce è anche il Battistero, progettato da Benedetto Antelami e costruito tra il 1196 e il 1216, rappresenta uno dei monumenti più significativi del passaggio dal romanico al primo gotico emiliano. La struttura ottagonale, in marmo rosa di Verona, si sviluppa in altezza con quattro ordini di logge ad aperture architravate.
Soltanto all’inizio del XIV secolo all’esterno del Battistero viene aggiunto l’ultimo piano con la balaustra e le edicole che lo coronano.
Potremmo identificare in queste figure affusolate a fondo nero di forma, apparentemente, cilindrica, sormontati da una cupoletta, quei colonnotti in marmo che delimitano il perimetro del sagrato della chiesa di San Giovanni Evangelista nell’anonimo piazzale.
Seguendo la medesima suggestione potremmo allora spingerci a riconoscere nella figura scura un monaco in abito benedettino, seduto, forse su quei supposti colonnotti, descritto con brevi e repentine pennellate verticali e orizzontali. Di fronte ad esso, come immortalato per caso da uno scatto fugace, la figura di un anonimo passante.
«Basta poco – dunque – per togliere a questi paesaggi […] la loro tranquillità, per sottrarli alla contemplazione e trasformarli in frammenti di inquietudine: un inondamento di luce intensa, uguale ed ossessiva che dilaga per tutto lo spazio e ne altera la naturalità; un scender di raggi da un cielo altissimo ad illuminare […] solo un punto che diventa così una zona misteriosa di apparizione, o un astro che si deforma come una ferita.» (Roberto Tassi, 1973)
Scheda realizzata in collaborazione con Artificio Società Cooperativa